
Ryley Walker è il tipico personaggio amato dalla critica perché facilita enormemente il compito del recensore: si inizia l’articolo meravigliandosi della sua giovane età e di quanto il suo approccio paia provenire “da un’altra epoca”, si tirano in ballo i riferimenti sin troppo palesi che sicuramente lo hanno ispirato (a partire dalla magica triade Morrison-Martyn-Buckley), si chiude con una banalità a effetto su quanto questa musica “metta d’accordo due o tre generazioni”, e il gioco è fatto. Nessuna interpretazione, nessuna ricerca, nessun ascolto analitico: un artista trasparente e rassicurante, ideale quando il lavoro abbonda e una scrittura a stampo è provvidenziale per non ingolfare la lista delle recensioni arretrate.
Deve essersene accorto anche lui, se è vero che già da Golden Sings That Have Been Sung ha iniziato a prendere le distanze dal folk rock dilatato che era la cifra dello splendido Primrose Green per migrare in cieli più elettrici e psichedelici, pur di non farsi appiccicare addosso un’etichetta lusinghiera ma anche ingombrante. Questo nuovo Deafman Glance, com’era lecito aspettarsi, prosegue la transizione da songwriter liquido a post-rocker vintage con ancora più estro e spericolatezza, abbracciando soluzioni più libere se non addirittura aleatorie (qualcosa di simile a quanto hanno fatto l’anno scorso i Fleet Foxes con Crack-Up): il risultato è il suo lavoro finora più difficile e meno immediato, su cui pesa un po’ la mancanza di quei passaggi tersi che hanno fatto innamorare molti ma che incassa in profondità e personalità, penetrante come l’“occhiata del sordo” evocata dal titolo. E’ un’ opera fortemente narrativa, che dà grande importanza al comparto dinamico, con un’attenta calibrazione della dialettica pieno-vuoto per creare effetti via via più spiazzanti e coinvolgenti. Ad emergere ulteriormente è poi la bravura dello strumentista che, dismettendo quasi del tutto l’acustica, si dimostra una volta di più chitarrista dalle sonorità morbide ed eleganti.
In A Castle Dome è una narcolettica fantasia country declinata in uno slowcore prossimo ai Rex ma memore anche degli Spirit più sognanti, impreziosita da flauto e sintetizzatore e con un pregevole intreccio tra due chitarre che evocano un utopico duetto tra Duane Allman e Jerry Garcia. 22 Days è meno pigra e più tesa, con i suoi accordi quasi strappati e i ghirigori jazzati un po’ alla Camel, subdola nel suo inquieto evolversi tra un imprevedibile bridge dall’andatura saltellante e un solo quasi frippiano che frulla gli altri strumenti in un vortice dissonante. Accomodations è la composizione più estrema della raccolta, flirtante con Canterbury, avant-jazz e musique concrète, un po’ di Faust ma anche di Jim O’Rourke, con bellissime parti di pianoforte. Can’t Ask Why si apre con un autistico scampanellare sintetico che non può non rimandare ai concittadini Wilco di I’m Trying To Break Your Heart per poi solidificarsi in una lunga ballata imparentata con certe cose del collega Jonathan Wilson in cui la chitarra acustica, grande assente della festa, torna protagonista, rimanendo pressoché immota per oltre quattro minuti prima di essere assaltata da un inatteso fuzz psichedelico; per qualche strana ragione, qui e altrove la voce di Ryley ricorda vagamente quella di Eddie Vedder.
Se gli accordi aperti di Opposite Middle non sfigurerebbero in una tela degli American Football, la voce è così pacata e sofferta da far invidia a Kurt Wagner, in antitesi con le acrobazie di una chitarra quasi à-la Steve Howe. Telluride Speed, primo singolo estratto, si adagia su una sontuosa apertura stile Spring, voce ancora una volta sul punto di frantumarsi nel pianto (questa volta siamo nei dintorni dello Smog di Dream River, ma anche del buon vecchio Bert Jansch) stuprata con crudeltà da turgidi chitarroni atonali, degenerando in un ponte scattante di marca Genesis prima di atterrare su una pista di flauti che deve qualcosa al Gil Scott-Heron di Winter In America. Expired si riallaccia alle atmosfere più sospese di inizio disco poggiando su un morbido impasto di voce, organo e chitarre schioccanti, raggiunto prima dai flauti, poi dal piano e infine dalla lap steel, con tanto di coda semi-ascetica; se Buckley padre rimane uno spettro costante, qui a sorpresa sembra di sentir aleggiare anche le cose migliori del figlio (ma filtrate attraverso il tono smorto di un Mark Kozelek). La brevissima Rocks On Rainbow è poco più che un esercizio di fingerpicking strumentale alla Davy Graham, quasi un modo simbolico per congedarsi dalle sonorità con cui si è fatto le ossa e da cui appare già lontanissimo. Al contrario, Spoil With The Rest è epica e agitata tra furibondi arpeggi e stilettate thompsoniane, finale tutt’altro che pacificato o pacificante per un’opera che, sotto il pelo di un’acqua apparentemente cheta, cela tormenti ancora in via di definizione.
Affascinante nel suo rimanere frammentario e irrisolto, Deafman Glance corrisponde ai requisiti standard da “album di mezzo”: non sarà l’approdo ad una definitiva maturità autoriale, ma di sicuro apre coraggiose possibilità esplorative per questo moderno “navigatore di stelle”, che dimostra una volta di più quanto gli artisti siano mediamente più intelligenti dei critici che pretendono di imbrigliarli con le loro pastoie.
Tracklist
1. In Castle Dome
2. 22 Days
3. Accommodations
4. Can’t Ask Why
5. Opposite Middle
6. Telluride Speed
7. Expired
8. Rocks On Rainbow
9. Spoil With The Rest