[Visioni] Peter Von Kant (François Ozon, 2022)

“Vizio tedesco”: così i francesi motteggiavano l’omosessualità, prima della riscossa liberatoria avviatasi a fine ‘800 proprio in terra germanica. A quasi un secolo dalle intuizioni dei vari Ulrichs, Hirschfeld e Brand, un paciere d’eccezione è infine giunto a riconciliare le due fazioni. 
Prima o poi sarebbe accaduto. Massimo regista omosessuale vivente, Ozon non poteva indugiare oltre nell’omaggiare l’indiscusso sovrano del cinema gay novecentesco. Gocce d’Acqua Su Pietre Roventi avrà pure rotto il ghiaccio, ma è solo con Peter Von Kant che trova il coraggio di mettere in scena non solo le sue pagine, ma Fassbinder stesso, peccatore impersonato da un debordante, impietoso Denis Ménochet.

I punti di contatto, in ogni caso, sono controbilanciati da altrettante divergenze: se è vero che maestro e allievo condividono una turgida carnalità sul piano sessuale, la mortifera equazione potere-violenza con cui fa Fassbinder fa coincidere l’amore non può essere adottata dal più propositivo e per nulla autodistruttivo Ozon. Buon per lui, detto fra noi.
Stesso discorso per le due opere, sovrapponibili quanto inconciliabili. Pur clonando riga per riga lo script originale, Ozon rinuncia alla glaciale teatralità di Fassbinder per calcare la mano sulle leve cinematografiche, nel ricco montaggio come nelle plastiche scenografie. Il cinema, d’altronde, è la chiave di volta del film: dalla scelta di trasformare la stilista in un regista al commovente finale, in cui la consolazione delle immagini ricompone una realtà in frantumi, Ozon si dimostra un fiero partigiano del suo medium.

Il tributo va ben oltre il cinquantenario del quasi omonimo capolavoro: ammiccando a Il Diritto Del Più Forte (citato esplicitamente, forse anche troppo, in una delle battute più lapidarie) quanto al fatidico Querelle (di cui Isabelle Adjani cinguetta l’intramontabile tema, non facendo rimpiangere Jeanne Moreau), è in fondo tutta la filmografia fassbinderiana a essere penetrata, con la rabbonita Hanna Shygulla a tramutarsi in una presenza materna.
Tra San Sebastiani trafitti e la dose di lotta di classe iniettata dal giovane maghrebino, il fantasma del succitato Genet domina le stanze arredate con gusto decadente. Traboccanti di un kitsch d’alto bordo, paiono sale di un museo camp. Ed è proprio in questo che la missione di Ozon può dirsi compiuta con lode: Peter Von Kant finisce con l’essere il queer movie quintessenziale, testamento quantomai vitale di un intero modo di concepire il cinema e la vita.

REGIA: François Ozon
PAESE: Francia/Belgio
DURATA: 85’
PRODUZIONE: Foz, France 2 Cinéma, Scope Pictures, Playtime Productions
SCENEGGIATURA: François Ozon, Rainer Werner Fassbinder
FOTOGRAFIA: Manuel Dacosse
SCENOGRAFIA: Katia Wyszkop
COSTUMI: Pascaline Chavanne
MONTAGGIO: Laure Gardette
MUSICHE: Clément Ducol
CAST: 
Denis Menochet, Khalil Ben Gharbia, Isabelle Adjani, Hanna Schygulla, Stefan Crepon, Aminthe Audiard

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