[Ascolti] Crime & The City Solution – The Killer (Mute, 2023)

Why can’t we cry for all the dead we left behind?

Una chitarra sgrana un accordo minore, dolente e sospeso, poi una voce profonda come la notte ci precipita dentro, con la solennità del tuffatore di Paestum. I primi versi paiono estratti da un’arcaica murder ballad: “My love turns rivers to blood”. Chi altro vuoi che ci sia dietro quel microfono a nastro, se non Simon Bonney?
L’australiano errante l’avevamo dato per disperso, dopo l’ennesima fuga nel buio di dieci anni fa esatti. Poi, alla soglia del nuovo decennio, qualche timido segnale di fumo: nel 2019 l’anomala antologia solista Past, Present, Future, l’anno successivo una comparsata vocale su Straight Songs Of Sorrow del discepolo Mark Lanegan.

La vera sorpresa, però, arriva l’anno scorso: i Crime & The City Solution annunciano l’insperata ricostituzione. I fan non li prendono troppo sul serio, avvezzi come sono ai loro chiari di luna, ma stavolta non si scherza: un tour europeo in estate e, a stretto giro, un’inequivocabile documentazione fotografica a testimoniare l’incisione di un nuovo disco. Incredibile ma vero.
I retroscena, al solito, sono surreali: intrappolato nella nativa Australia dal confinamento pandemico, Bonney ammazza il tempo ripescando la sua improbabile carriera accademica. Con piglio alla William T. Vollmann, si mette al lavoro su un dottorato basato sulla sua nuova professione di aid programmer nell’Indo-Pacifico, che l’ha portato a trasferirsi in Thailandia. Drammatiche quando non tragiche, le storie che ha raccolto debordano presto dal pentagramma saggistico, facendosi materia prima per un raccolta di canzoni. Canzoni in cui il sofferto fatalismo dell’artista, pur sospeso a vari metri da terra, si cala in una realtà darker than fiction, indelebilmente macchiata dall’attualità internazionale.

Dopo aver cantato le gesta di un cacciatore nel supremo Shine, stavolta è la figura dell’assassino a proiettare la sua ombra su questo ennesimo romanzo gotico, sublimando in chiave letteraria orrori tutti politici. Per registrarlo, la carovana issa le tende nella città che più di ogni altra ha segnato la storia criminale: Berlino. Forte di una line up nuova di zecca (Donald Baldie, Chris Hughes, Frederic Lyenn, Joshua Murphy e Georgio Valentino, con i soli coniugi Bonney riconfermati) e della produzione di Martin J. Fiedler, la musica sfoglia un album di foto già tempestato di impronte: deserti morriconiani, organi spettrali, il violino sinuoso e spiritato di Bronwyn Adams, qualche tocco teutonico (l’inesorabile arpeggiatore di Brave Hearted Woman, accorata dedica marito-moglie).

Due gemme oscure, però, brillano oltre misura: a metà, gli otto minuti della title track, convulso spoken word che affila visioni raggelanti (“I feel your pain, please don’t kill me”) e taglienti calembour (“I did not mean to become so mean”); in chiusura, il mesto lamento pianistico di Peace In My Timetorch song dagli accenti gospel, con tanto di immolazione à la René Girard (“I am to blame”).
E ora, la fatidica domanda polemica: valeva la pena aspettare tanto per 37 minuti che, al netto dell’inattaccabile classe, non spanciano un solco già abbondantemente tracciato? Per rispondere, basta riavvolgere la recensione: quante ne trovate in giro di chitarre, di voci e di versi di quel calibro?

Tracklist
1. Rivers of Blood
2. Hurt You, Hurt Me
3. River Of God
4. Brave Hearted Woman
5. Killer
6. Witness
7. Peace in my Time


[lo trovi anche su Ondarock]

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