[Ascolti] Alick Nkhata – Radio Lusaka (Mississippi Records, 2025)

This is Green Leader of the Rhodesian military. We request your permission to attack Rhodesian terrorist bases on your territory. You are not the enemy, I repeat, the Zambian government and its people are not the enemy. We are simply targeting Rhodesian terrorists

Mettetevi nei panni dell’addetto radio che, il 19 ottobre del 1978, si sente recapitare questa comunicazione. Dall’altro capo c’è il famigerato Chris Dixon aka “Green Leader”, comandante di squadriglia della Rhodesian Air Force. È in corso l’Operazione Gatling, uno dei raid più spettacolari della moderna storia militare, e dalla torre di controllo dell’aeroporto di Lusaka non possono che obbedire, magari dopo essersi fatti il segno della croce. Stando al Comandante Verde, l’obiettivo dei rhodesiani sono tre campi di addestramento dello ZIPRA, una delle formazioni che sta lottando per la trasformazione della Rhodesia in Zimbabwe (l’indipendenza dell’ex-colonia britannica verrà portata a termine due anni dopo, inaugurando l’ultratrentennale regime di Robert Mugabe). Peccato che, come da copione, insieme agli immancabili “terroristi” da stanare finiscano falciati centinaia di civili inermi, tra cui il protagonista di questo articolo.

Sono anni difficili per lo Zambia di Kenneth Kaunda, ambizioso padre della patria. Il crollo del prezzo del rame ha messo in ginocchio un’economia rampante, vanificando una stagione di riforme. Ma a far precipitare la situazione è soprattutto la scelta di Kaunda di offrire asilo ai movimenti di liberazione neri che, in gran parte dell’Africa Meridionale, stanno combattendo i governi razzisti in mano ai bianchi: il paese si ritrova non solo isolato politicamente, ma teatro di continue rappresaglie, di cui l’Operazione Gatling costituisce l’episodio più cruento.

Tra le conseguenze della crisi politica ed economica dello Zambia si registra il tramonto di un’epopea locale che, a distanza di tanti anni, continua a infiammare i cuori “duri” degli appassionati di mezzo mondo: parliamo ovviamente dello Zamrock e di band di culto come Amanaz, Ngozi Family, Peace e Witch (questi ultimi tornati di recente in attività, seppur decimati dall’AIDS), con la loro originalissima “africanizzazione” di suoni hard-psych-funk a suon di chitarroni saturi di fuzz e wah. Fu proprio un decreto promulgato da Kaunda negli anni 60 a sponsorizzare la proliferazione del movimento, costringendo le radio a trasmettere musica che fosse “per il 95% locale”, in modo da fornire la colonna sonora giusta all’indipendenza appena conquistata.

Se gli eroi dello Zamrock hanno sdoganato il sound di Lusaka in Occidente, il pioniere nonché santo protettore della musica popolare zambiana risponde al nome di Alick Nkhata. Tutto ha inizio durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il giovane Alick si ritrova scaraventato in Birmania al seguito delle truppe coloniali britanniche. Sveglio e curioso, si guarda intorno e impara più cose possibili dai dominatori, per poi tornare in Zambia come field recorder al seguito dell’etnomusicologo Hugh Tracey. Capisce presto quale sia la sua missione: preservare e tramandare la tradizione musicale del suo paese. Capisce anche che è la radio lo strumento più potente a sua disposizione e inizia a servirsene sin dagli anni 50, prima come musicista con la sua Lusaka Radio Band e poi come broadcaster

Fino al ’64 si fa le ossa alla Central African Broadcasting Service, dove si occupa di registrare e trasmettere artisti folk, mentre dopo l’indipendenza diventa direttore della sezione culturale della Zambian Broadcasting Service, consacrando una volta per tutte la sua figura di patrono musicale. Nel 1974 sente di aver concluso il suo compito e, con la sobria dignità di un Cincinnato, si ritira a vita privata nella sua fattoria nei pressi di Mkushi, suonando di tanto in tanto solo per sé e la sua famiglia. Fino a quella maledetta giornata di quattro anni dopo, in cui la cieca brutalità della Storia nega al sant’uomo il suo meritato pensionamento: per un tragico destino, la sua proprietà sorge vicino a una base dello ZIPRA e finisce anch’essa spazzata via dal fuoco indiscriminato del Green Leader.

Alick non c’è più, ma per fortuna possiamo ancora ascoltare le sue magnifiche incisioni. Se un primo tentativo di raccogliere la sua produzione risale al 1991, con un Cd uscito senza troppe cerimonie per la defunta RetroAfric, è questa splendida antologia curata della Mississippi Records a costituire l’epitaffio ideale di una figura non abbastanza celebrata, riportando per la prima volta quelle tracce su vinile. Tracce che continuano a incantare con la loro lieve intensità, ricordandoci che formidabile interprete sia stato questo instancabile archivista, armato di un delicato falsetto e della suadente lingua bemba.

I paragoni sono sempre avvilenti (quanto ce l’hanno menata con il refrain secondo cui Ali Farka Touré sarebbe stato “il Lightnin’ Hopkins del Mali”?), ma qua tornano davvero utili perché i riferimenti sono pescati dalla tradizione non solo africana, ma mondiale. Ed è così che, forte del suo background etnomusicologico, l’autore si districa tra armonie barbershop da radiolina a valvole (Kalindawalo Ni Mfumu), yodeling alla Jimmie Rodgers (Nalikwebele Sonka), ragtime (Imbote, in cui fa capolino pure un sorprendente sintetizzatore) e vibraziozioni pseudo-bossa (Bambi Balefisa Kumwabo). Per le stesse ragioni, non deve certo stupire che Shalapo sia in parte cantata in inglese. Storie di dura vita quotidiana, tra lavoro in miniera, disoccupazione e tragedie familiari, narrate con il tono solenne di un cantore antico. Un repertorio che trova il suo apice nella melodia dolente di Mayo Na Bwalya, sconsolata come un paese che, a causa dell’inestirpabile imbecillità umana, si è dovuto privare di un ambasciatore tanto imponente.

Tracklist
1. Nafwaya Fwaya
2. Kalindawlo Ni Mfumu
3. Elena
4. Fosta Kayi
5. Nalikwebele Sonka
6. Shalapo
7. Kapata Mukaya
8. Bambi Balefi Sa Kumwabo
9. Imbote
10. Fodya
11. Mayo Na Bwalya
12. Tuki Beni Calo


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